Lo zucchero nel rum
Uno degli argomenti più dibattuti dagli esperti del mondo del rum è proprio la presenza o meno dello zucchero aggiunto nel prodotto finale e molto probabilmente rappresenta il terreno di conflitto più “aspro”, per usare un appropriato calambour, nel mondo dei produttori di rum. Proprio per questo cercherò di addolcirlo senza vestire i panni di un moralizzatore.
Infatti nel “concept” di Rum Express Milano non c’è l’obiettivo formativo legato al rum in senso stretto e quindi non ho nelle mie corde l’impegno di cimentarmi nella ricerca di ciò che è permesso o meno nei diversi disciplinari (alcuni assurti a livello di legislazione, altri semplicemente legati a procedimenti di implicita tradizione) oppure di ricercare la classificazione più appropriata del prodotto in base anche al mio punto di vista personale, bensì quello di “sentire” a livello emozionale il rum per poi raccontare le sue meraviglie.
Proprio da qui voglio partire nel modulare le mie personali considerazioni.
La prima "droga"
Ho imparato nel corso degli anni che la prima “droga” che l’essere umano assume nella vita viene somministrata direttamente dai nostri genitori nei primissimi anni della nostra vita per fare in modo che la medicina venga accettata quasi in modo incontrovertibile. Anzi, aggiungo, venga paradossalmente richiesta alla prima necessità dal bambino stesso. Appare evidente come lo zucchero incarni la nostra prima inconsapevole dipendenza.
Se poi ritorno con la memoria ai racconti di Pamela Lyndon Travers, penso di trovare solide basi nel mio ragionamento attraverso il famoso refrain di Mary Poppins “basta un poco di zucchero e la pillola va giù“.
Dal momento che spendo parecchio della mia energia con mia figlia nel cercare di limitarne l’amore per la tachipirina, cercherò di non sperperarla totalmente nel cercare di convincervi quanto l’amarezza della medicina sia una profonda metafora della vita e in quanto tale vada accettata per coglierne la profonda realtà nel suo lato costruttivo senza dover ricorrere all’assunzione di sostanze di carattere artificiale.

Manifattura del rum
“Quando si parla di rum è proprio il carattere profondo della disambiguità del vocabolo “artefatto” (dal latino, arte-factus, fatto ad arte) che apre il cerchio magico intorno al mondo del rum. In che senso?
Il rum è certamente un artefatto dell’uomo a partire dalla canna da zucchero attraverso i vari processi di raccolta, taglio, fermentazione, distillazione, quindi invecchiamento fino all’imbottigliamento. Ma il rum può anche essere fatto ad arte per incontrare nella maniera più adeguata le caratteristiche richieste dell’utente finale secondo quel curioso comun denominatore che ha sviluppato nel corso della sua esistenza.
In ciascuno di questi processi la mano dell’essere umano interviene a più livelli nel costruire, modificare, variare e sublimare le caratteristiche nel nobile distillato: a partire dalla selezione e agli incroci delle diverse tipologie di canna da zucchero, nel ricercare la più adatta al clima, al territorio, alla resistenza, alla qualità, alla concentrazione dello zucchero in essa contenuto, addirittura al suo taglio e al tempo prima della spremitura, per passare poi (a seconda del tipo di materia prima considerata e mi riferisco a succo, melassa o altro) alla fantasiosità dei vari tipi di processi di fermentazione inventati, fino ad arrivare alla realizzazione e alla perizia nell’utilizzo di spettacolari alambicchi, alcuni vere e proprie opere da museo del rum.
E qui mi fermo perché sento di intuire uno dei primi nodi in cui tecnici, chimici, produttori, rum experts or lovers hanno materiale degno di pagine e pagine di approfondimento di tutto rispetto.”
Distillazione del rum
In parole semplici, la prima cosa che ho imparato è proprio il concetto di distillazione che in quanto tale, se condotto in maniera appropriata, separa (appunto distilla) la materia prima in alcool, acqua, esteri e non ricordo altro. Ah sì il metanolo, ma va accuratamente eliminato.
Non ricordo da nessuna parte di aver letto anche lo zucchero. Anzi, sarò più preciso: né zuccheri né zucchero, dal momento che sono prodotti differenti: per esempio, il whiskey prodotto con il malto e col supporto dei miei ricordi di chimica, posso scrivere che il malto stesso possiede una notevole percentuale di maltosio (un disaccaride composto da due molecole di glucosio).
Come conseguenza di ciò, mi sembra evidente che in tutti i processi di distillazione e non solo in quello del rum, ad un certo punto del processo ci sia un’alta presenza di zuccheri. Ma lì e solo lì. Al termine dello stesso non si misura una presenza che in termini di inferenza statistica si consideri “apprezzabile”.

Manufatto / artefatto
Ritornando al doppio significato del termine artefatto, in queste righe intendo riferirmi alla possibilità che il rum venga anche “artefatto ex post”, e quindi modificato o rimodellato a seconda di particolari esigenze. In breve, al termine del processo tradizionale, alcuni produttori intervengono sul prodotto finito per correggerlo a diversi livelli, distanti tra loro proprio concettualmente.
Questi interventi possono essere da un lato correttivi a seguito di una necessità di sopperire all’instabile struttura del prodotto finale in termini aromatici, dall’altro anche a livello di consistenza e di colore per esigenze del mercato di destinazione. Alcuni di questi interventi sono permessi entro certi limiti dalle normative vigenti nelle nazioni afferenti il mondo del rum. Altri sono semplicemente descritti nell’etichetta e credo che sia un diritto sacrosanto.
Questo è il secondo nodo del discorso: il mercato. Chi sono i destinatari finali del rum? O meglio, chi sono OGGI i destinatari finali del rum? Voglio semplificare all’osso il mio punto di vista. Qualora i destinatari finali del prodotto siano quelli storici di riferimento e il rum venga prodotto per essi, in linea con la cultura e la tradizione di riferimento, allora, per quanto mi riguarda, se la questione non dovesse incontrare le mie aspettative o incontrare il mio gusto, rifiuterei semplicemente senza obiettare alcunché al riguardo (un giorno racconterò come in alcune feste con rituali sciamanici in Madagascar venga abbinato il rum a seconda dell’effetto che andrà a propiziare).
Se i destinatari alla fine sono i mercati occidentali, europeo in un senso e americano nell’altro, come possiamo non intuire che l’artefatto (!) risenta dei gusti che ci contraddistinguono e che allo stesso tempo storicamente ci contrappongono? Come non riflettere sul fatto che venga indirizzato sui nostri binari di un piacere già strutturato fin dall’origine?
Mi hanno raccontato un simpatico aneddoto secondo il quale “i neri bevono il rum bianco e i bianchi il rum scuro”, cosa aggiungere ulteriormente se non che ci siano diversi livelli di lettura di un detto tradizionale?

L'esperienza sensoriale
A questo punto autorizzo direttamente me stesso ad aggiungere qualcosa e cioè il mio punto di vista che è all’origine del mio amore per il rum: chiudere gli occhi e provare a vivere attraverso i profumi e i sapori il piacere di percepire l’emozione di viaggiare nel proprio tempo e nello spazio con il senso più antico e allo stesso tempo più abbandonato dall’essere umano: l’olfatto (prima del gusto).
Vi posso assicurare che si può discutere, e io lo faccio sovente, su che tipo di oliva il vostro olfatto vi riporta a momento dell’olfazione di un rum agricole bianco e persino litigare se avete piacere perché l’oliva verde che uno percepisce non è quella che sovviene al compagno di degustazione (ci sono veri e propri segugi in giro), oppure cercare di rivivere la sensazione del ginocchio sbucciato nella corsa da bambini tra l’erba alta ed il frinire delle cicale nel sole di un pomeriggio d’estate con la sola percezione di un particolare sentore erbaceo.
Nelle botti del legno di rovere del Kentucky, persino nell’estrema carbonizzazione crocodile di alcune ultime release, nella qualità di un legno sconosciuto dell’amazzonia (si pensi ad una cachaca), nella botte che ha contenuto il vino fortificato di Madeira, nello stoccaggio a pochi passi dall’oceano o nell’intero percorso di una traversata atlantica, piuttosto che nell’invecchiamento continentale in una dismessa galleria in UK, o paradossalmente al freddo delle nostre Alpi risiedono i sogni di coloro che degustano un particolare invecchiamento e che scoprono i misteri nascosti dei sentori terziari con il loro bagaglio di ricordi storici ma anche e soprattutto personali.
Ma se pensate di coinvolgermi nel riconoscere il tipo di zucchero che credete di sentire nella degustazione del prodotto, io mi siedo ad ascoltare: posso solo dimenticare tutto quello che ho scritto a partire dalla tachipirina e ripartire da zero. E perché no? Stupirmi!